Watch Dogs, siamo tutti Pollicini Digitali @ Wired.it

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Watch Dogs, siamo tutti Pollicini Digitali @ Wired.it

Sorveglianza totale, controllo della popolazione, furto e abuso dei dati privati: Watch Dogs, il chiacchierato titolo firmato Ubisoft, affronta tematiche pressanti con le quali saremo sempre più costretti a confrontarci. Nel corso dell’evento di presentazione che si è tenuto a Milano, sono quindi intervenuti anche due esperti in materia che hanno messo a confronto la finzione del gioco e la realtà, per capire quanto di quel mondo immaginario sia invece già parte della nostra vita quotidiana.

Uno è Sergey Golovanov di Kaspersky Labs, specializzato nella caccia ai malware, che ha fornito a Ubisoft la sua consulenza per gli aspetti tecnologici del gioco. Golovanov passa in rassegna alcuni degli hack che possiamo eseguire in Watch Dogs – in particolare l’intercettazione di dati e telefonate, i prelievi fraudolenti ai bancomat, l’apertura delle portiere delle auto, il controllo dei semafori, l’innesco di un blackout – per capire se siano fattibili anche al di fuori dello schermo. La risposta è rispettivamente: sì, sì, sì, sì e ancora sì, per quanto in forme un po’ più complesse (ma a volte nemmeno tanto) rispetto al “punta lo smartphone, clicca e voilà” del gioco.

Docente presso il dipartimento d’Informatica dell’Università di Pisa, Dino Pedreschi è invece un pioniere delle ricerche sui big data. Lo spunto di partenza per il suo intervento è il Ctos, il sistema centralizzato che, in Watch Dogs, gestisce l’intera città di Chicago: telecamere, trasporti, flussi del traffico, ma soprattutto la raccolta delle informazioni relative ai cittadini e la loro profilazione, mediante la quale è in grado di prevedere le possibilità che si verifichi un crimine (un po’ alla Person of Interest). Funziona così anche nel mondo reale? I Big Data servono solo a controllarci?

Pedreschi lavora da anni sull’analisi e sull’interpretazione della mole di informazioni che ci lasciamo dietro, più o meno consciamente. “Siamo tutti pollicini digitali“, dice Pedreschi, perché in ogni momento della nostra vita seminiamo tracce digitali – movimenti, acquisti, preferenze, eccetera (ognuno di noi disperde 2,5 GB di ‘briciole’ all’anno). Tutti questi dati, letti con le giuste chiavi di interpretazione e con approcci creativi, permettono di individuare schemi che fanno emergere la struttura complessa della società.

“I dati raccontano storie“, spiega Pedreschi. Facebook traccia una mappa delle relazioni e delle comunità sociali, formate dagli amici e dalla famiglia, che stanno intorno a ogni persona. Grazie alle ricerche effettuate su Google dagli utenti è possibile prevedere l’insorgere di epidemie in tempo quasi reale – un esempio di nowcasting. La ‘twitterologia’ è in grado di misurare il tasso di felicità e umore di una nazione, tenendo conto dei testi che vengono scambiati sul social network (a titolo di curiosità, l’area più felice degli Stati Uniti è Napa Valley).

Quando si ricorre ai grandi numeri, alla mole dei big data, questi rilevamenti diventano oggettivi, tanto che “possiamo cominciare a pensare a un nuovo tipo di statistica ufficiale”.

E ancora, i Big Data sono uno strumento efficace per comprendere come viviamo e come funzionano le nostre città: attraverso le tracce telefoniche o dei GPS si può analizzare e comprendere quando e come ci spostiamo, o quanti pendolari entrano ed escono dalla città. Si arriva così a capire che, per esempio, in Toscana due terzi degli automobilisti potrebbero passare all’auto elettrica senza problemi, considerate le distanze che percorrono di solito tutti i giorni.

Studiando i movimenti della gente si possono anche individuare zone di transito e permanenza più o meno dense, e valutare quanto siano collegate o separate fra loro: “Si scoprono le comunità ed emergono i confini territoriali”, dice Pedreschi. Si tratta quindi di un prezioso strumento di pianificazione.

Si pensi poi all’applicazione di questi metodi nei paesi in via di sviluppo: ricostruire la mappa della mobilità consentirebbe di progettare e indirizzare nel modo migliore le infrastrutture stradali.

Fino a qui, quindi, tutto bene: è il lato positivo dei big data, che costituiscono una grande opportunità per la società e le imprese. Ma, ribaltando la medaglia, esiste un lato oscuro preoccupante, quello che evidenzia anche Watch Dogs e che emerge quando le persone e i loro comportamenti vengono messi sotto il microscopio.

Il caso NSA denunciato da Edward Snowden “è un esempio reale di un uso distorto e immorale dei big data, uno spionaggio industriale che va bandito”, dice Pedreschi; “Siamo a un bivio: da una parte c’è il modello Watch Dogs, quello della sorveglianza totale. Dall’altro un new deal dei big data, un ecosistema incentrato sulla persona“.

I dati sono la nuova risorsa – il petrolio – del futuro, ma finora “ne hanno beneficiato solo pochi latifondisti di informazioni”: Google, Facebook, Apple, Amazon; i nomi li conosciamo. Viceversa, i dati possono diventare per l’individuo fonte di autoconoscenza e consapevolezza, utilizzabili per il miglioramento della società.

“Affidare il potere ai singoli è un passaggio fondamentale”, sostiene Pedreschi; “la complessità non si governa dall’alto”. Un passaggio che non può prescindere dalla definizione di garanzie a protezione della riservatezza, con l’applicazione in ambito tecnologico della privacy by design (ossia, la privacy concepita a monte, strutturale e integrata).

Pedreschi conclude immaginando la sua idea per un gioco che vada oltre la classica logica del cane sciolto che combatte da solo il sistema, affrontato invece da una folla di giocatori intelligenti che si accorda localmente. Uno spunto per il prossimo Watch Dogs?